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Calcio | 02 aprile 2019, 12:42

PROTAGONISTI A tu per tu con Stefano Melchiori

Un lungo viaggio nel calcio che conta, tra Marchioro, Zoff e Paul Gascoigne

PROTAGONISTI A tu per tu con Stefano Melchiori

Abbiamo scelto di conoscere più a fondo un ex giocatore professionista ed ora allenatore che è nato a Genova, si tratta di Stefano Melchiori.

Buongiorno Stefano, ci può raccontare un po’ la sua carriera da giocatore?

Buongiorno, essendo di Genova ho fatto le trafile nelle giovanili della Sampdoria fino alla Primavera, poi mi sono trasferito a Varazze per disputare un campionato di Interregionale. Poi, dopo 5 anni tra D e C arriva la chiamata alla Reggiana di Pippo Marchioro in B. Il gran salto arriva l’anno dopo con la chiamata alla Lazio in A. Ancora in A e in B con il Lecce e poi una carriera chiusa a 40 anni tra C e D, avvicinandomi sempre più alla zona dove abito, qui in Piemonte, per stare vicino alla famiglia.

Ma come è giocare in Serie A? Che emozioni dà? La gente lo vede come un gioco, ma in effetti parliamo di professionismo.

Giocare in Serie A è il sogno di tutti i bambini che si affacciano al gioco del calcio, e sottolineo che deve essere il sogno dei più piccini, non quello dei genitori che spingono i loro figli ad arrivare dove pochissimi arrivano, perché è proprio questo che rovina il gusto di giocare a molti ragazzi che abbandonano questo sport fin da giovanissimi. Per quanto mi riguarda essere arrivato al top della carriera di un giocatore, se escludiamo la Nazionale, è stata un’esperienza bellissima. Ma il bello del Calcio è che è uguale in qualsiasi contesto lo si giochi, ogni categoria in cui si giochi regala emozioni uguali, ripeto, il gioco rimane quello. Arrivare alla massima serie ti fa sentire un privilegiato, non dal punto di vista economico, anche se presente, ma dalla qualità di vita che fai, soprattutto se riesci a mantenere mentalmente la gioia di giocare, che serve di stimolo a fare sempre meglio, anche per chi lo fa di mestiere è importante che l’aspetto ludico sia sempre presente.

Alla Lazio, come allenatore, aveva un certo Sig.  Dino Zoff, ce lo può raccontare, era veramente così chiuso e schivo come lo si vedeva nelle interviste o sul campo di allenamento si trasformava?

Il passaggio alla Reggiana con l’innovatore Marchioro, e successivamente alla Lazio con il mitico Zoff è stato veramente stimolante. Per quanto riguarda il campione del mondo ex numero uno della nazionale era veramente come lo si vedeva nelle interviste, con la dirigenza ed anche con noi calciatori, per farlo comunicare bisognava tirargli fuori le parole con un po’ di fatica, questo per carattere ovviamente. Ho sempre sostenuto che come analizzava lui le partite giocate alla domenica, ce ne son stati veramente pochi, le sue analisi colpivano sistematicamente nel segno, erano lucide, perfette sia nello scovare i problemi che negli aspetti positivi. Sorprendeva talvolta con rare battute, e la sua nascosta simpatia si abbinava perfettamente all’uomo Zoff, un uomo vero, onesto, grande professionista. Non gli ho mai sentito alzare la voce, il suo tono pacato arrivava lo stesso a noi giocatori, quando analizzava e correggeva le prestazioni, devo dire che per me è stato uno splendido esempio di professionalità.

A proposito di questa capacità di saper leggere la partita e di analizzarla con voi alla ripresa degli allenamenti, si vedeva la sua esperienza di portiere? Vorrei sapere se si differenziava da allenatori che avevano coperto ruoli diversi da giocatori.

Intanto il calcio era giocato diversamente da quello che si vede oggi, più lento, meno tattico, era più facile da leggere, c’era ancora il libero tradizionale che si staccava dietro alla difesa. Per quanto riguarda Zoff il fatto di essere stato l’ultimo uomo della squadra, ed avendo avuto la possibilità di guardare tutti i movimenti dei compagni nell’insieme, sicuramente lo ha sensibilizzato nella lettura delle situazioni. Vi racconto un particolare, non l’ho mai visto intromettersi nel lavoro dei suoi collaboratori che preparavano i portieri, mai un suggerimento anche se dall’alto della sua esperienza avrebbe potuto dire la sua. Ci accorgevamo dopo le sue analisi, riguardando le partite o gli highlights in Tv che quello che ci aveva evidenziato in negativo o positivo era sempre azzeccatissimo. Inoltre non lo ho mai visto alterato, in panchina dava suggerimenti con calma come in allenamento, aveva il pregio di non metterti mai sotto pressione.

Prima ha parlato di Pippo Marchioro e della sua innovazione, la zona, come si trova un giocatore abituato alla marcatura a uomo a passare al gioco a zona?

Intanto la zona attuata da Marchioro era quasi limitata alla linea a quattro dei difensori, ci disponevamo quasi come in un odierno 4-3-3, io ero abituato allo stopper, al libero, al fluidificante di sinistra, al terzino destro, ma essendo una mezz’ala per me non cambiava moltissimo, dovevamo stare molto attenti a stare corti, vicini, stretti, un po’ come si gioca oggi. Con l’uso del libero, invece, le squadre giocavano più lunghe, c’erano più spazi. Se guardiamo le partite di quel periodo possiamo notare che i giocatori ricevevano spesso la palla da fermi e avanzavano palla al piede camminando, questo era possibile perché non c’era pressione, gli spazi erano più ampi. Forse, allora, si trovava più giocatori di qualità, ora è basilare la velocità di pensiero, bisogna prevedere le situazioni, la fase di percezione o lettura è determinante nel calcio moderno. Forse è proprio per quello che ora vediamo tanti errori anche nei professionisti, dovuti al fatto che non tutti i giocatori sono pronti per giocare con una velocità di pensiero estrema. Il calcio cambia, come cambiano tutte le cose, e i bravi sono quelli che sanno adattarsi in minor tempo all’evoluzione del gioco. Personalmente mi sono trovato bene con entrambi i sistemi, e siccome ho giocato fino a 40 anni, di zona ne ho masticata tanta.

Com’è stato il salto da giocatore ad allenatore? Si è trovato in un limbo confusionale? Ecco vorrei sapere come ha lavorato la sua mente nel processo di identificazione nel ruolo di coach. Inoltre lei ha parlato di percezione, argomento a me caro, come è possibile allenare percezione e presa di decisione in una prima squadra, e lei ne trovava il tempo?

Intanto il passaggio da giocatore ad allenatore è sicuramente difficile, già in partita si vorrebbe aiutare i propri ragazzi con continui consigli e questo è meglio non farlo, in settimana bisogna ragionare molto ed in maniera diversa da come lo fa un giocatore. Personalmente ho cercato di prendere, nella memoria storica, tutte quelle situazioni positive accumulate in carriera, tralasciando quelle che mi avevano convinto di meno. Per quanto riguarda la seconda parte della sua domanda, il lavoro sulla percezione deve essere sviluppato nei settori giovanili, iniziando da subito, perché quando si arriva in prima squadra, spesso, non si trova il tempo per andare a riformare un giocatore che dovrebbe essere finito. Consiglio comunque a chi inizia a fare l’allenatore di cominciare come collaboratore, facendo attenzione, e ragionando sulle proposte allenanti, in modo da costruirsi un bagaglio tutto suo, fatto di esperienze diverse, legate da una propria filosofia di gioco che deve tramutarsi in principi da trasmettere alla squadra.

Che tipo di allenatore è, oggi, Stefano Melchiori?

Mi piace che le mie squadre giochino a calcio, che ci sia un impianto di gioco e che non sia lasciato nulla al caso, è certamente più facile farlo mano a mano che sali con le categorie perché trovi giocatori predisposti e più pronti ad accettare una filosofia di gioco importante e consapevole. Non riesco a vedere ed accettare partite dove la palla viaggia ad altezze assurde, è vero che nelle prime squadre il risultato è determinante, fin troppo a volte, perché se non arriva ti mettono in discussione senza darti il tempo di far vedere lo sviluppo del tuo lavoro. Il segreto è quello di capire quanto prima possibile le qualità dei singoli e riuscire ad amalgamarle tra loro in modo da chiedere alla squadra cose che sono nelle corde di tutti, sfruttando le qualità di ogni componente.

Ultima domanda, e vorrei finire facendo venire un sorriso sulle labbra a tutti i nostri lettori. So che ha giocato con un certo Paul Gascoigne, nell’anno passato alla Lazio, e qui le lascio campo libero, perché con un personaggio del genere ce ne saranno cose da raccontare.

Purtroppo, l’anno in cui ero alla Lazio, lui non era disponibile perché ancora infortunato, quindi non ho avuto il piacere di averlo come compagno di squadra effettivo. L’anno dopo, quando mi trasferii al Lecce lui iniziò a giocare regolarmente. Forse è proprio questo il rammarico più grande, non aver potuto giocare con lui. Quando era con noi, nelle trasferte, me ne ricordo una in particolare ad Andria, fece il viaggio con noi e portava il sorriso a tutti, tra scherzi, giochi di carte, seri e meno seri, il dopo cena diventava il suo show personale. Aveva una parola buona per tutti era sempre positivo, era una persona che non potevi non amare come uomo, come compagno, come leader, e come giocatore non devo dirlo io quanto fosse bravo. Ricollegandoci a tutti i discorsi che abbiamo fatto, lui, ai tempi, aveva una velocità di pensiero importante e a differenza da altri compagni riusciva a personalizzare questa facilità di lettura delle situazioni mettendola al servizio delle sue qualità, come l’1vs1 o la potenza del tiro, sapeva scegliere quando giocare di prima o tenere la palla, che non gli toglievi quasi mai, perché la copriva benissimo. Nel gruppo era quello che stemperava le tensioni proprie dell’allenamento di un professionista del calcio, sapeva dire sempre qualcosa che ti faceva sorridere, ed ora mi dispiace molto la condizione in cui si trova, sappiamo che non se la passa molto bene, anzi gli auguro di riprendersi al più presto, il calcio ha ancora bisogno di lui.

Grazie per il tempo che ci ha concesso, Mr. Melchiori, è stato bellissimo parlare di calcio con lei.

Grazie a voi, è stato un piacere.

Marco Martini

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