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Calcio | 01 dicembre 2020, 11:36

LA MIA AVVENTURA A SETTIMANA SPORT Le "memorie" di Simone Arveda

"Nel 2004 è finita, come forse era anche naturale accadesse, perché i rapporti mutano, le ambizioni anche e gli spazi vanno di conseguenza: volevo fare di più, volevo fare altro e dovevo farlo altrove. Ma di sicuro, ancora oggi, non vorrei aver cominciato da nessun'altra parte"

Simone Arveda è il primo in basso da sinistra in questa foto che ritrae la squadra di Settimana Sport iscritta ai tornei AICS

Simone Arveda è il primo in basso da sinistra in questa foto che ritrae la squadra di Settimana Sport iscritta ai tornei AICS

ANCHE SIMONE ARVEDA, PRIMISSIMO COLLABORATORE DI SETTIMANA SPORT E POI SOCIO DI EDIZIONI SPORTMEDIA, OGGI BRILLANTE FOTOGRAFO PROFESSIONISTA, CI ACCOMPAGNA NEL VIAGGIO A RITROSO NELLA STORIA DELLA NOSTRA TESTATA.

GLI ABBIAMO CHIESTO "DUE RIGHE" DI RICORDI. ECCO COSA HA PRODOTTO.

D'accordo, facciamo questo punto sulla Seconda D. «Mister Meligrana? Buongiorno, Simone Arveda di Settimana Sport. Volevo farle qualche domanda sulla partita di ieri...». Più o meno ho cominciato così, ed era il 29 marzo del 1998. Cosa fosse la Seconda D, in effetti, ancora non lo sapevo.

Via Galata, una stanza ricavata negli uffici dell'Aics. C'erano Luca e Paolo e c'era il direttore di allora, Sergio Brunetti, coi suoi baffoni e la sua passione per le foto e per qualunque sport non fosse il calcio.

Avevo quindici anni e di quel giornale mi aveva parlato uno degli assistenti - Roberto Marescalchi - che lavoravano nel mio liceo: allenava l'Audax Quinto, pallavolo, e mi aveva detto di provare a telefonare in redazione per vedere se potesse esserci uno spazio per me.

C'era, quello spazio, e di questo rimango e rimarrò sempre grato sia a Paolo, sia a Luca: tutto quel che avevo era zero esperienza, molte fantasie e la convinzione totale che quella sarebbe stata la mia vita. Mi hanno dato fiducia, me la sono presa.

Certo, avevo voglia. Voglia di fare, di scrivere, di imparare. E la redazione, per sei anni che mi sembrano trenta, mi ha dato la possibilità di farlo. Alla fine di quella stagione la prima partita seguita dal vivo - spareggio di Terza Largo Merlo-Valbisagno, 3-1 con doppietta di Kwitchoua Tiolou -, e poi non so più quante altre...

E il lavoro d'ufficio, l'organizzazione delle partite e le chiamate ai collaboratori per spedirli ovunque il week-end successivo (a un paio di loro dovrei forse delle scuse), l'impaginazione e la grafica del giornale, i giri in tipografia e alle poste, le pagine del Secolo XIX, la serranda tirata giù alle 6 del lunedì mattina e la scuola alle 8.

E le foto, che oggi sono la mia vita: quanto ho voluto bene a quella Mavica a floppy disk...

In sei anni ho lavorato tanto, davvero tanto, e mi sono divertito parecchio.

Era quello che sognavo di fare, del resto, e nel mentre ho condiviso un'infinità di momenti con decine e decine di persone: su tutte Federico Pastore, che avevo trascinato io al giornale e con cui l'amicizia dura da più di vent'anni, e Francesco Casuscelli, anche se ci siamo persi di vista e non so se sa quanto l'ho stimato.

Poi - era il 2004 - è finita, come forse era anche naturale accadesse, perché i rapporti mutano, le ambizioni anche e gli spazi vanno di conseguenza: volevo fare di più, volevo fare altro e dovevo farlo altrove.

Ma di sicuro, ancora oggi, non vorrei aver cominciato da nessun'altra parte.

Mille numeri del Secolo sono un'enormità. Ho condiviso il percorso per i primi tre anni, col vicedirettore Angelini a correggere le bozze, i titoli da cambiare, qualche didascalia da rifare e la cena alla scrivania sempre più vicina.

E poi si ricominciava a scrivere, impaginare, ritoccare foto, sistemare tabellini e articoli lunghissimi quando servivano corti e cortissimi quando servivano lunghi.

Credo che, più o meno, possa essere così anche oggi. E spero lo sarà ancora per molto tempo.

[s. arv.]

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